Gli studenti italiani manifestano un disagio molto grave, che spesso sfocia nel drop-out. E’ il risultato di anni di incuria su quella che dovrebbe invece essere la fabbrica del futuro
Hanno attacchi di panico, soffrono di ansia, manifestano disturbi alimentari, abusano di psicofarmaci, praticano l’autolesionismo, talvolta usano droghe e alcool, soffrono di isolamento sociale e, sempre più spesso, non riescono a portare a termine gli studi. Non stiamo parlando dei “ragazzi dello zoo di Berlino”, ma degli studenti italiani: tutte le ricerche evidenziano in maniera impietosa un disagio crescente e certamente allarmante.
D’altra parte, sarebbe bastato ascoltare gli studenti stessi, che in più occasioni hanno manifestato il loro disagio – non solo per la didattica a distanza – e che oggi chiedono con forza di istituzionalizzare la figura dello psicologo scolastico, sperimentata in seguito alla pandemia poi però abbandonata dal nuovo governo, che ha preferito investire altrove.
Da dove nasce questo dilagante disagio? Certo, il Covid ha provocato uno sconquasso su tutti noi, anche se oggi tendiamo a rimuoverne il ricordo, e senza ombra di dubbio i giovani sono stati i più penalizzati. Derubati per oltre due anni della cosa più importante alla loro età, ovvero la socialità, oggi sono come un pugile suonato che, ben dopo la fine dell’incontro, ha ancora i lividi e il pensiero poco lucido in seguito ai cazzotti.
Attenzione, però, a non dare tutte le colpe al virus. La pandemia è stata un vero e proprio tsunami, ma ha gettato benzina su un fuoco che già bruciava. Fin da molto prima chi si occupa di scuola segnalava un calo impressionante nell’apprendimento, dovuto anche agli effetti collaterali dell’era digitale. Chi vive connesso 24 ore su 24 da quando era in fasce, oggi fatica a mantenere la concentrazione ed è ipersensibile alla considerazione altrui: abituati a sentirsi appagati dai “like” sui social, gli studenti fanno sempre più fatica a tollerare la frustrazione del fallimento. Basta quindi un brutto voto, a volte anche solo un rimprovero, per minare l’autostima, spingendo questi poveri ragazzi persino a mentire ai propri genitori che, ovviamente, sono spesso ancora più disorientati e fragili di loro.
Gli adulti non possono certo dirsi esenti da responsabilità, men che meno gli insegnanti. Pur se preparati sul piano teorico nelle rispettive materia, loro stessi ammettono di non saper gestire questa delicatissima situazione emotiva e, sempre più frequentemente, faticano a mantenere il controllo delle rispettive classi: senza arrivare ai casi più eclatanti di bullismo dei ragazzi sui prof (anche qui esasperati dai social), il fenomeno è molto diffuso.
E anche sulla preparazione specifica ci sarebbe da dire. Trattandosi di lavoro sottopagato, quello dell’insegnante è un ruolo in piena crisi di vocazione. Per questo, esistono strumenti come la “messa a disposizione” (in breve “MAD”, che in inglese vuol dire “pazzo”), con la quale si reclutano per insegnare nelle medie e nelle superiori professionisti di tutt’altro settore, che non trovando di meglio sale in cattedra. Per farlo basta una laurea, più 24 crediti universitari. Lo scorso giugno il Parlamento ha stretto le maglie, alzando la soglia a 60 crediti formativi, dei quali almeno 20 di tirocinio. Peccato, però, che ad oggi manchino ancora i decreti attuativi, per cui tutto è ancora come prima. Ci sono anche vari disegni di legge sullo psicologo scolastico che ristagnano ormai da anni in attesa di trattazione. Uno di questi, risalente all’anno di grazia 2018, porta anche la firma di Giorgia Meloni, allora deputata di opposizione e oggi Presidente del Consiglio.
Basta questo per sperare in una svolta? Francamente no, anche perché la politica, di tutte le fazioni, ha dato ampia dimostrazione di come la scuola sia in fondo alla sua lista di priorità. Anche da questo punto di vista il Covid ci ha svelato la verità: basti pensare a come si è riaperto tutto, purché producesse soldi, mentre la scuola è ripartita per ultima, a danno ormai consumato.